One minute you’re here….

Quadro in acrilico di Pipa

One minute you’re here, one minute you’re gone”. Non si può viaggiare in America senza la musica di Bruce Springsteen come sottofondo. L’ho ritrovato nel pieno della sua forma musicale nell’ultimo suo disco A Letter to you, immenso, profondo. Dà voce ai suoi pensieri di uomo anziano con mille ricordi di successi, stadi pieni, e amicizie lunghe e durature. Lui non è il rockettaro maledetto ma un musicista che ha costruito intorno alla musica la sua famiglia. Quando lo ascolto immediatamente mi immergo nei ricordi di me ragazzina di 14 anni che comprava in Inghilterra il vinile di Born to run, o di me dodicenne che percorreva strade immense nel suo primo viaggio americano on the road. Mio padre alla guida, i paesaggi immensi, i parchi americani sterminati e deserti, la musica country di sottofondo, le amiche care al mio fianco. Lui organizzava i nostri viaggi in modo meticoloso, poco era lasciato al caso, e questo dava sicurezza. Ci portava in posti poco noti, ci intratteneva pure in macchina con giochi musicali. Adorava la compagnia del suo migliore amico con il quale per 50 anni ogni momento insieme era una risata felice. Lui avvocato colto e innamorato della vita, amante del vino e del divertimento, mio padre ingegnere creativo e grandissimo intrattenitore. I viaggi con loro erano magici. Fin da quando avevo dieci anni per me l’estate era questo, posti nuovi da scoprire, avventure, risate e gioia in compagnia dei più cari amici di famiglia. Mio papà era un viaggiatore, per lavoro viveva su un aereo, aveva amici in tutto il mondo, ancora adesso mi scrive il suo caro amico giapponese, un tempo capo della Philips Giappone. Mancano quegli anni in cui tutto è luminoso, in cui ti scotti dopo ore sdraiata sulla spiaggia, in cui ti svegli la mattina distrutta perché la sera hai fatto tardi e ti sei innamorata anche solo per un giorno. Mancano le notti con l’amica del cuore a raccontarsi segreti e sogni. E manchi tu, papà, approdo di pace e sicurezza. One minute you’re here, one minute you’re gone. L’hospice, un’esperienza che non immaginavo anche se qualcuno me l’aveva accennata. “Non c’è più nulla da fare, è sepsi questa volta e non crediamo abbia senso accanirsi”. Accanimento, vuol dire accanirsi alla vita, cosa che tu hai fatto per almeno un anno e mezzo. Se ti accanivi tu, posso non accanirmi io a mantenerti in vita? Ma ai medici bisogna dare ascolto, la tua anima non voleva lasciarci ma il tuo corpo stava subendo di tutto e di più. L’hospice era l’unica soluzione. Gli ospedali erano pieni per Covid, non c’era posto. Ma comunque non aveva più senso riportarti lì come tutte le altre volte. Quelle stanze piene di dolore e di amore, l’aria condizionata, la luce che si intravedeva dalla finestre, l’abbraccio di un infermiere. Tutti ricordi impressi dentro di me. Ma l’hospice l’ho visto attraverso un schermo, tu finalmente senza fili attaccati, il tuo respiro, il tuo sonno. 4 lunghi giorni di attesa, solitudine, abbandono, con un oceano in mezzo. Il conforto di pochissime persone, quelle preziose, che avranno un posto speciale nel mio cuore per sempre. Per il resto il vuoto, anche di chi sapeva. Il prima è peggio del dopo. La morfina in lento aumento, le urine che si bloccano, il percorso verso la pace, il corpo che si arrende. E poi quella telefonata. “È successo, l’infermiera era con lui”. Il dolore trafigge a tal punto da creare un sorriso, quel finto coraggio, la voglia di sentirsi immensamente forte. Un dolore non nuovo, anticipato, studiato, preparato. E finisce nelle parole, nella musica, nell’arte, nell’ossessione di ricercare pezzi di te, una voce, una lettera, un video. Le lacrime arrivano ad ogni ricordo, profumo, e sono asciugate da piccole mani giovani. “Papà vieni la mamma piange”. Era il 21 Dicembre 2020, lo stesso giorno in cui ho perso la mia adorata nonna tanti anni fa.